JUNG E LA TEORIA DEGLI ARCHETIPI 


La teoria degli archetipi non si presta ad essere formalizzata perché lo stesso Jung non la formula in modo univoco e definito; è un concetto che presenta quindi una certa ambiguità e indeterminatezza.

Jung definisce l’archetipo come una realtà tra il somatico e lo psichico. Da una parte pone le sue radici nell’istinto e cioè nella sfera organica, costituendo una predisposizione innata a determinate prestazioni psicologiche in reazione ad eventi universali quali ad esempio: la morte, la nascita, l’amore. Dunque tutti gli uomini di fronte a tali eventi universali rispondono con simili prestazioni psicologiche. D’altra parte l’archetipo è una categoria mentale a priori, una struttura strutturante sulla quale si struttura la conoscenza e che è legata alla dimensione immaginifica e spirituale.

Nel 1919 Jung fa una distinzione fra:

  • ARCHETIPO: è la struttura strutturante inconscia, considerata in entrambe le dimensioni sia  organica che psichica. Essa è in sé inconoscibile ed è possibile riconoscerne l’esistenza attraverso il suo farsi immagine, immagini che riflettono le esperienze collettive di tutta l’umanità. Gli archetipi quindi sono forme a priori, innate, che organizzano l’esperienza e che quindi sono alla base di “modelli innati di comportamenti e prestazioni psicologiche”.

L’apriorismo e l’innatismo dell’archetipo non contraddice il fatto che la sua dimensione immaginifica dipenda dalle influenze ambientali (cultura).

Tali strutture sono il risultato di progressive modificazioni del cervello umano intercorse durante lo sviluppo filogenetico: la teoria evoluzionistica viene estesa alla sfera psichica sottoforma di categorie innate della mente attraverso le quali vengono organizzate le immagini mutuate dall’ambiente.

  •  IMMAGINE ARCHETIPICA: è l’immagine che si forma sulla struttura strutturante “archetipo” dipendentemente dalla cultura d’appartenenza e quindi dall’esperienza; è da queste immagini che si può desumere, per via ipotetica, l’esistenza delle strutture archetipiche della psiche.

L’archetipo può attivarsi, e quindi manifestarsi attraverso un’immagine archetipica, sia a seguito di eventi esterni che interni all’individuo; questi ultimi sono i casi più frequenti.

Nel caso degli eventi esterni, non è difficile capire perché le popolazioni primitive, prive delle necessarie conoscenze scientifiche, fossero spinte a spiegare eventi naturali incomprensibili e incontrollabili attraverso mitologie e religioni, come riportato da Ellenberger. Anche oggi certi eventi sono in grado di attivare archetipi consolidatisi nel corso dello sviluppo filogenetico che danno origine a immagini archetipiche.

Secondo noi gli archetipi possono essere considerati come delle “strutture strutturanti” che si sarebbero formate per rispondere a bisogni fondamentale dell’essere umano, bisogni comuni a tutti gli uomini, per cui ogni archetipo potrebbe generare da un bisogno fondamentale.

Questa psiche oggettiva è intesa alla maniera lamarckiana. Infatti l’archetipo è il risultato dell’acquisizione permanente delle esperienze fondamentali degli antenati, che viene trasmessa ereditariamente. Cioè tali esperienze hanno determinato, nel corso dello sviluppo filogenetico, una certa conformazione del sistema nervoso, il quale dà origine a risposte universali di fronte a esperienze universali, a prescindere dalla razza, dalla cultura, dal tempo e dallo spazio.

In altre parole, ciò che viene ereditato non sono le immagini archetipiche, ma la possibilità di strutturarle secondo modalità geneticamente predeterminate: gli archetipi non sono dunque delle rappresentazioni inconsce ma sono strutture strutturanti di tali rappresentazioni.

Per sostenere tale teoria, detta teoria dell’inconscio collettivo, Jung ricorre al metodo dei parallelismi culturali, dimostrando che ogni gruppo etnico, di fronte a eventi universali come la nascita, la morte, l’amore ecc., risponde con simili modalità comportamentali ed espressive, come si può riscontrare dal confronto di mitologie, religioni, creazioni artistiche e dal confronto di questi con sogni, fantasie e deliri dei malati di mente.

Ad esempio, l’esperienza tragica della morte è stata elaborata attraverso il mito dell’immortalità: una tale elaborazione, diffusa in quasi tutte le culture, rappresenta un’immagine archetipica, strutturata su un archetipo.

Secondo Jung, l’inconscio collettivo, espressione delle strutture archetipiche, ha funzioni adattive di fronte ad angosce fondamentali, come quella per la morte propria o di chi si ama, che minaccerebbero di disintegrare la nostra identità, diminuendo le probabilità di sopravvivenza (la teoria evoluzionistica è qui applicata alla sfera psichica). Infatti, se di fronte alla morte della persona amata tutti ci lasciassimo prendere dalla disperazione e ci suicidassimo, la specie umana si sarebbe estinta decine di migliaia di anni fa. Quei popoli che sono riusciti ad elaborare l’idea dell’immortalità dell’anima, hanno sviluppato la capacità di superare collettivamente la paura della morte e l’angoscia della separazione, aumentando le probabilità di sopravvivenza.

Lo sviluppo della dimensione spirituale, che può esprimersi nei diversi sistemi religiosi, è altamente funzionale alla sopravvivenza: infatti tale dimensione sorregge l’individuo dall’interno e lo aiuta ad affrontare gli eventi più negativi della propria esistenza.

L’uomo ha assolutamente bisogno di idee e convinzioni generali che diano un significato alla propria vita e che gli permettano di individuare il suo posto nell’universo; è grazie a tali convinzioni che egli può trovare la forza di affrontare le più incredibili avversità.

Tutti attraversiamo nella vita dei momenti difficili, come quando compiamo delle difficili scelte di autonomia o quando perdiamo una persona amata, o quando siamo presi da un “ingiustificato” e agghiacciante terrore. Sono tutte situazioni dolorose universali (che riguardano l’intera umanità) vissute ogni volta come tragedie personali, ed è di fronte a situazioni del genere che nelle persone scattano meccanismi simili e funzionali alla sopravvivenza, come quelli relativi alla dimensione spirituale.

Vediamo  un esempio:

- Frattura sentimentale e archetipo della morte intesa come passaggio da una fase esistenziale ad un’altra - E’ una delle esperienze più dolorose che ci possano capitare; quando amiamo una persona, siamo esposti al rischio della perdita e della separazione. Se l’oggetto amato viene a mancare abbiamo la sensazione di morire perché viene a mancare quella polarità relazionale sulla quale la nostra vita si reggeva, esattamente come l’elettricità si innesta tra due poli, per cui se uno viene disattivato l’energia non può fluire.

Solo quando investiamo la nostra libido su un altro essere umano e ne veniamo ricambiati, tale energia si sblocca e riprende a fluire dandoci la sensazione di vita rinnovata. Se l’altro viene meno soggiunge la sensazione e persino il desiderio di morire: tale desiderio però non è da intendersi come una vera volontà di morire. La morte è infatti intesa come una volontà di passaggio simbolico da una fase esistenziale ad un’altra, un momento di trasformazione. Tale immagine, della morte come passaggio o trasformazione, è archetipica ed è ricorrente in tutte le culture umane, e in questo caso viene attivata da una frattura sentimentale.

Se non riusciamo a dare un senso agli eventi, come quelli fondamentali della vita e della morte, sarà difficile affrontare le avversità della vita. Per far questo è necessario stabilire un legame profondo con la propria dimensione interna e cioè con quell’insieme di contenuti inconsci archetipici e complessuali che possediamo. Se non riusciamo a fare ciò, piomberemo nella disperazione e nell’angoscia più profonda: è per tale ragione che è necessario annettere al dominio dell’Io cosciente contenuti autonomi dell’inconscio. Tale difficile processo ci rende più forti rispetto all’assurdità del mondo interno ed esterno. E’quindi necessario interrogarsi su se stessi, cercare di conoscersi il più possibile a livello profondo, cercando di arrivare sin dove si può arrivare senza mai arrendersi. E’ grazie a tale impegno che i complessi dell’inconscio personale e gli archetipi dell’inconscio collettivo potranno liberare per noi delle energie positive.

Jung, pur non trascurando le determinanti personali, era maggiormente interessato alle determinanti collettive inconsce del comportamento. Nella sua vastissima opera sono numerosi gli studi condotti per dimostrare l’influenza di tali determinanti sullo psichismo umano: una particolare attenzione è data alle religioni di ogni cultura, considerate una filiazione diretta dell’inconscio collettivo e cioè di archetipi.

 

 

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